sabato 3 dicembre 2011

Narrazioni, Narrazioni

di Domenico D'Amico (REPOST 08/07/2008)

guerraTempo fa rimasi parecchio incuriosito da una dichiarazione (all'interno di un'intervista) di Tonino Guerra: a suo avviso film come The Matrix erano senza trama. Quando una cosa del genere l'afferma l'autore di sceneggiature come quelle di Uomini Contro e Blowup, Zabriskie Point e Amarcord, la si prende sul serio. Mi sono detto: apparentemente The Matrix mette in opera una fabula che più fabula non si può, che a dispiegarla si arrossisce, tutta la storia di un popolo in schiavitù che attende l'arrivo di un messia che lo liberi e lo conduca a Zion (cioè Sion), e il messia naturalmente deve intraprendere un percorso iniziatico che lo porta a dubitare della sua elezione, fino alla morte e rinascita che ne avverano il destino escatologico... Certo, è l'ennesima rinarrazione biblica che da sempre ossessiona la cultura (alta e bassa) statunitense, ma in ogni caso il racconto c'è, eccome. Probabilmente Guerra si era un po' fatto trasportare dal luogo comune (tutt'altro che infondato) americanate-tutte-effetti-speciali = storia-colabrodo. Ma credo che ci fosse anche un elemento di base, un elemento culturale che gli faceva percepire quella di Matrix come una non-storia. Il cinema di Guerra (ovviamente, non solo il suo) è il cinema della psicologia dei personaggi: anche le figure visionarie dei film di Fellini hanno un'interiorità, quando non addirittura una caratura psicoanalitica. Quello di Matrix, invece, è un racconto mitico, e i personaggi dei miti non hanno psicologia, o se ce l'hanno non è la psicologia come l'intendiamo almeno dall`800 in poi. Forse è questo che ha reso invisibile la fabula di Matrix agli occhi di un grande uomo di cinema.
matrix

giovedì 3 febbraio 2011

The Good, the Bad, the Weird

di Domenico D'Amico (REPOST 27/03/2009)


È sempre un piacere vedere all'opera un attore multiforme come Song Kang-ho (nell'attesa di godercelo come vampiro dalla coscienza tormentata, possiamo compulsare meraviglie come The Host, dove dipinge mirabilmente una figura di istrionico loser, oppure Memories of Murder, dove ci dona il quasi commovente ritratto di un cialtronesco poliziotto di provincia dagli occhi "sciamanici"), ed è particolarmente gratificante vederlo libero di sfogare la sua vena comica in un puro western d'azione come The Good, the Bad, the Weird (좋은 놈, 나쁜 놈, 이상한 놈 - Kim Ji-woon 2008). 

Song Kang-ho
 
Ambientato in una Manciuria anni '20 dai tratti epico-picareschi quanto quelli della Frontiera nordamericana, la storia ci presenta uno schema di base (la caccia al tesoro) che è un omaggio al prototipo di Sergio Leone, ma si lancia in serrato, opulento e pirotecnico snocciolarsi di sparatorie e inseguimenti (compreso uno nel deserto della durata di dodici minuti) che è l'incarnazione del puro piacere dello spettacolo, dell'avventura, del racconto.
Anche gli altri componenti del trittico di "eroi" sono all'altezza dell'impresa.
Mentre Song Kang-ho è "lo strano" bandito solitario che incappa, rapinando un treno, in una preziosa mappa in mano all'esercito giapponese, Jeong Woo-seong è "il buono" cacciatore di taglie che cerca di recuperarla in sinergia  con i ribelli provenienti dalla Corea occupata. Attore dal fascino maschile rassicurante (l'opposto del bello e dannato) Jeong Woo-seong ha interpretato film romantici e strappalacrime come il meraviglioso
A Moment to Remember, o fantasy di cappa e spada come The Restless, sempre col suo sguardo da bravo ragazzo (perfino in Daisy, affiancato dalla sempre da me venerata Jeon Ji-hyeon, Jeong fa la parte di un sicario dal cuore d'oro).

Jeong Woo-seong
 
Il sanguinario capobanda Lee Byeong-Heon, invece, che va appresso alla mappa ma contemporaneamente vuole vendicarsi dello "strano", è il prototipo del bello e dannato, perfetto nel ruolo del "cattivo" della storia (lo ricordiamo nel memorabile gangster di A Bittersweet Life). 

Lee Byeong-Heon
 
Predoni cinesi, esercito giapponese, spie, collaborazionisti e partigiani, affollano quest'epica galoppante (eh già), fino ai classici duelli finali (altro omaggio a Leone) e ai colpi di scena multipli.

sabato 8 gennaio 2011

Questo Blog

hands
Il blog Doppiocieco nasceva nel maggio del 2008, iniziativa del mio amico Franco Cilli, che mi ha trascinato, ad onta della mia immarcescibile ignavia, in un'avventura politica e culturale che, fatti i conti, ha arricchito sia noi sia i nostri (25) lettori.

Tuttavia, sarà lo spappolamento cerebrale incombente, sarà una situazione locale e globale che mi lascia sempre più avvilito, devo ammettere (soprattutto davanti a me stesso) che l'entusiasmo e la voglia di scrivere, tradurre, postare o ripostare, sono in me notevolmente scemati.

A parte gli aspetti politici, può darsi che questo sia dovuto anche al fatto che uno degli elementi (a nostro avviso) di pregio di Doppiocieco (cioè il suo lato eclettico, che coniuga attivismo politico, umanesimo e attenzione ai vari fenomeni artistici), con l'accumulo e l'affastellamento di una mole sempre maggiore di materiale, si stava diluendo, almeno a mio avviso, sin quasi all'invisibilità.

Ma quella parte di Doppiocieco che guarda, senza eccessive pretese critiche, al campo dell'arte, quella parte mi sta particolarmente a cuore, tanto da darle una vita indipendente.

DoppioOcchio, quindi, nasce da Doppiocieco per un processo di talea (nel senso che è un pezzo del blog originale che, si spera, possa crescere autonomamente), o, per usare un termine televisivo, si tratta di uno spinoff, o anche, se vogliamo fare i borgesiani, è il derivato di una biforcazione.

Nel corso del tempo trasborderò qui i post di Doppiocieco riguardanti il cinema, la fotografia e l'arte in generale, insieme (come se fosse possibile il contrario) alla mia personale produzione grafica. Non essendo mai stato il mio (tranne rari casi) un tipo di commento sull'attualità, la riproposta dei vecchi post non dovrebbe sembrare eccessivamente datata (e poi, se servirà, potrò sempre aggiungere qualche aggiornamento, ovviamente – come da netiquette – dichiarato).

Buona visione.

Domenico D'Amico

John Connor e il Destino dell'Eroe Tragico

di Domenico D'Amico (REPOST 14/05/2009)

john connor tragic hero 01

L'eroe tragico sa di avere il destino segnato, e tuttavia tenta ugualmente di evitarlo. E il tentativo stesso di scampare al fato può, di fatto, portare a compimento il fato stesso. Edipo, avvertito dall'oracolo che avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre, abbandona la famiglia e viaggia fino a Tebe, ignorando che i genitori che lascia l'hanno adottato, che il suo vero padre è il re di Tebe, e che credendo di scampare al fato in realtà gli sta andando incontro.
Si tratta di una tematica che ovviamente non esaurisce la sua potenzialità con la tragedia attica: infinitamente trattata e pertrattata, giunge fino alla narrazione di massa dei nostri giorni.
All'interno della tematica dei viaggi nel tempo (paradossi annessi), il destino segnato si manifesta spesso in modo circolare (un esempio classico è l'anello temporale dell'Esercito delle Dodici Scimmie): come per Edipo, è lo stesso atto di voler cambiare il futuro che fa avverare il destino funesto, solo che, nel caso dei viaggi nel tempo, la profezia è già diventata un fatto, e si torna nel passato per invalidarla, finendo però per costituirne la causa diretta.
Da sottolineare che il punto di vista dello spettatore (che sa già come va a finire la fabula) diventa tutt'uno col punto di vista del fato stesso. Il fato, a cui nemmeno gli dèi possono opporsi, sa già la trama del futuro, anzi, dal suo punto di vista tale futuro è già accaduto, così come per lo spettatore la vicenda di Elettra o Medea sono già accadute, anche se narrate e rinarrate con variazioni e arricchimenti. Dal punto di vista del fato, la realtà non è che l'esecuzione, magari a canovaccio, di una linea melodica prestabilita e intangibile [1].
Nell'epos di Terminator questi motivi circolari variano sensibilmente. Kyle Reese non torna indietro nel tempo per cambiare il passato, ma per impedire che lo faccia un terminator inviato da Skynet a uccidere Sarah Connor; eppure, se Reese non fosse tornato nel passato e non avesse conosciuto Sarah, innamorandosene e facendo l'amore con lei, il futuro salvatore dell'umanità, John Connor, non sarebbe mai nato.
Inoltre, dal punto di vista dello spettatore, gli eventi futuri di cui siamo a conoscenza si spingono solo fino a un certo punto. Sappiamo che è un corso la guerra, che John Connor può vincerla, ma il futuro in cui questo (o il contrario) sia già accaduto ci rimane ignoto.


A questo elemento è dovuta la fluidità narrativa di Terminator. Una saga basata sul motivo millenario del bambino destinato alla gloria imperitura, minacciato da forze che ne desiderano, o profetizzano la fine precoce (si spazia da Achille a Cristo), trae la sua linfa creativa dalla frase incisa da Sarah Connor con un pugnale in Terminator 2: "No fate" [2].
Perché nell'epos di Terminator non solo non si verificano frustranti paradossi circolari (si cerca di cambiare il passato, ed è proprio questo tentativo a determinarlo), ma ogni azione, ogni decisione o errore, sia da parte degli umani sia da parte delle macchine, mantiene il futuro in uno stato di continua fluidità [3]. È una tematica di guerra temporale che, anch'essa, è ampiamente presente nella narrativa e nella filmografia fantascientifica.
Per tornare al fattore soggettivo del nostro argomento, John Connor, come tanti eroi tragici, prova un senso di angoscia e rifiuto per il destino che lo attende. Beninteso, lo scopo della vita di Sarah Connor è quello di impedire la nascita di Skynet, scongiurare la guerra di sterminio delle macchine contro gli umani, e di conseguenza impedire che suo figlio John diventi il mitico capo futuro della resistenza (oppure, in contemporanea e in alternativa, preparare il figlio al suo futuro ruolo salvifico). Ma data la fluidità del tempo, non esiste la possibilità di eliminare Skynet (preventivamente) in modo definitivo. Esso potrà svilupparsi in modi nuovi e inediti, mirando allo stesso obbiettivo per altre strade. Da ciò si deduce che la lotta di Sarah Connor non potrà mai avere fine. Solo un evento esiziale nel futuro, che ponga fine alle manipolazioni retroattive della linea temporale (lasciando la scacchiera cogli umani in vantaggio) potrebbe porre fine alla sua pena.
La situazione di John Connor è molto più ambigua di quella della madre. La sua reazione primaria è il rifiuto del suo fardello, mista alla frustrante consapevolezza che sarà molto improbabile liberarsene [4]. Ma la sua posizione, più che quella di Cristo, richiama quella di Amleto.
Amleto cerca consapevolmente di evadere dall'intreccio che lo spinge verso una resa dei conti luttuosa, ma, paradossalmente, alla fine non può che arrendersi alla convenzione narrativa della tragedia di vendetta, che vuole lo zio morto e un congruo numero di cadaveri ingombrare il palcoscenico (lasciando spazio a sopravvissuti più normali, che stipulano un nuovo patto sociale, dove i grandi avvenimenti tragici non trovano più posto). Paradossalmente, perché il teatro scespiriano (a cavallo tra XVI e XVII Secolo) vive ormai pienamente una modernità che non può più concepire la tragedia in senso classico: ciò che per l'eroe tragico greco è lo stigma della sua situazione irredimibile, la frattura tra la sua persona e la società, per l'individuo moderno è uno stato ormai acquisito. Per questo, in realtà, la tragedia scespiriana ha così poco in comune con la tragedia attica: in Shakespeare tragico è in pratica un sinonimo di luttuoso (o anche truculento, se pensiamo al Tito Andronico o alle opere di Webster); certo, si può anche dire che un destino funesto aleggi sulle figure di Romeo o Macbeth od Otello, ma non si tratta più di fato, ormai, quanto piuttosto di pura e semplice sventura [seppure favorita, ma non sempre, da un errore morale dell'eroe, come avviene nel modello classico; in Shakespeare non può esservi amartia, la colpa-non colpa dei greci: quelle di Andronico, che sacrifica i figli della regina Tamora, o di Macbeth, che uccide il re, non sono pecche, ma peccati, colpe, veri e propri crimini] E anche da questo schema narrativo che Amleto cerca di migrare coscientemente, tanto che, giustamente, Melchiori, nell'edizione dei Meridiani, cataloga la sua vicenda nella casella "drammi dialettici" e non in quella di "tragedie".
Niente amartia, per John Connor, niente (come abbiamo visto) destino (completamente) ineluttabile. E, più in fretta di Amleto, l'eroe sembra decidersi ad agire in consonanza col suo mandato (quasi) prefissato.
Nella seconda stagione di Terminator - The Sarah Connor Chronicles, John Connor comincia ad accettare pienamente il suo ruolo fatale, e inizia anche a prendere iniziative non più da ragazzino che cerca di ribellarsi all'autorità (coincidente) di madre e destino, ma coerenti col suo futuro status di capo della resistenza.
In particolare lo si vede nel modo in cui affronta quello che si potrebbe definire un tentativo di putsch transtemporale.
Jesse Flores, australiana proveniente dal futuro, ritenendo che John Connor ormai si faccia influenzare più dalle macchine (in particolare dalla Cameron del futuro) che dagli umani che combattono per lui, torna nel passato per spezzare il legame, ancora in evoluzione, tra John e Cameron. Il suo piano è spingere la giovane Riley Dawson (reclutata tra gli sfollati del futuro) tra le braccia di John Connor, e poi fare in modo che la terminator Cameron giunga a ritenere la ragazza un rischio per la sicurezza di John. La conseguenza sarebbe inevitabile: Cameron ucciderebbe Riley, ma John la ucciderebbe a sua volta (tramite un dispositivo datogli dalla stessa Cameron). Il piano non procede come dovrebbe, Riley si accorge che Jesse sta pensando di usarla come vittima sacrificale per il suo fine politico, e si ribella. Durante la lotta, Riley muore, e Jesse cerca comunque di addossare la responsabilità su Cameron. Ma John non si lascia ingannare. Ha già compreso da tempo la situazione, e il piano di Jesse fallisce. John stesso si chiede, alla fine, perché non sia intervenuto prima, perché non abbia cercato di salvare Riley. E si rende conto che sta semplicemente cominciando a comportarsi come John Connor: “I am John Connor”.
In un certo senso, nel momento in cui John accetta pienamente il suo destino di salvatore dell'umanità, ecco che ridiventa un eroe tragico (più simile ad Enea che a Cristo).

john connor tragic hero 03

E contemporaneamente, la fluidità narrativa della sua saga irrompe tumultuosa. Già avevamo capito che c'era qualcosa di fondamentalmente ambiguo nelle intenzioni di Catherine Weaver: è un T-1000 (un terminator formato da metallo liquido come quello di Terminator 2), e sta lavorando per la costruzione di una super intelligenza artificiale, nella forma di un (ex) terminator di nome John Henry. Ma abbiamo scoperto che non si tratta di Skynet, anzi, Skynet cerca di ucciderla. Dunque, potenzialmente, Catherine Weaver sarebbe un'alleata degli umani.
Il tuo John potrebbe salvare il mondo, ma non senza il mio.”
Questo è quello che dice Catherine Weaver a Sarah Connor, prima di portare John Connor con sé, nel futuro.
E John, in quel futuro di cui ha tanto sentito parlare, incontra subito facce conosciute: suo padre Kyle Reese, suo zio Derek, Cameron (o la sua controparte umana).
Ma nessuno di loro ha mai sentito parlare di John Connor.
Cosa ci porterà la terza stagione [*]?

Domenico D'Amico



Note
[1] Esempio della cultura di massa odierna, Smallville. Da sottolineare che il punto di vista dello spettatore (quando, nel caso delle storie ri-narrate, sa già come va a finire la fabula) diventa tutt'uno col punto di vista del fato stesso. Il fato, a cui nemmeno gli dèi possono opporsi, sa già la trama del futuro, anzi, dal suo punto di vista tale futuro è già accaduto, così come per lo spettatore la vicenda di Elettra o Medea sono già accadute, anche se narrate e rinarrate con variazioni e arricchimenti. Dal punto di vista del fato, la realtà non è che l'esecuzione, magari a canovaccio, di una linea melodica prestabilita e intangibile. In Terminator vediamo la costruzione del canovaccio in fieri, per cui lo stesso fato (e lo spettatore, e perfino gli stessi sceneggiatori) non conosce la fine della storia.
[2] Lo scontato parallelo con la vicenda di Cristo assume tratti intriganti quando pensiamo al ruolo di Sarah Connor. Ella è la madre del Messia (in un certo modo), ma di fronte al fato non dice fiat mihi secundum verbum tuum, anzi da sacro recipiente si trasforma in protagonista del tentativo di confutare la propria elezione. Ecce ancilla sta minchia!
[3] Ma l'apertura dell'epos di John Connor non implica che i narratori possano fare qualsiasi cosa. Tant'è vero che l'eventualità (trapelata tra il pubblico e in seguito goffamente smentita) che lo stesso Connor sparisse dalla propria storia, sostituito da un automa che, letteralmente, ne avrebbe dovuto indossare la pelle (la maschera, la persona), ha provocato un tale tellurico risentimento collettivo da costringere gli sceneggiatori a un ripensamento immediato. Il mito ha le sue leggi interne.
[4] Lo stesso Cristo, eroe tragico anch'egli, chiede a Dio di risparmiargli una fine già prefissata, pur sapendo che è inutile.
[*] Nota aggiuntiva – Quando scrivevo questo post ignoravo che la serie fosse stata cancellata.